Ricordo di Aldo Capitini (1970)

Ricordo di Aldo Capitini, «Azione Nonviolenta», a. VII, n. 10-11, Perugia, ottobre-dicembre 1970, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive. È il testo di un discorso tenuto a Perugia, nella Sala della Vaccara, il 19 ottobre 1970, nel secondo anniversario della morte di Capitini. La manifestazione era stata organizzata dall’amministrazione comunale e dalla Fondazione Centro Studi Aldo Capitini.

Ricordo di Aldo Capitini nel secondo anniversario della morte

Nel ripensamento della mia lunghissima amicizia e vicinanza (qui a Perugia e poi fra nuovi incontri a Perugia e altrove, e in una ininterrotta corrispondenza epistolare) con Aldo Capitini – amicizia che coinvolge una grandissima parte della mia vita, e cioè dal 1931 al 1968 – mi soffermerò su due periodi, su due zone perugine, e userò poi alcuni ricordi e considerazioni che vorrebbero servire – in questa testimonianza personale di amico e di perugino – a illuminare la presenza e la personalità di questo grande uomo, cittadino e maestro cosí profondamente incisivo nella storia perugina e italiana e nella vita di tanti uomini che ebbero la fortuna eccezionale di incontrarlo, di amarlo, di essere oggetto vivo della sua amicizia, del suo amore, del suo altissimo magistero ideale, morale, politico, interamente umano.

Anzitutto il fervido e indimenticabile periodo del mio incontro e della mia consuetudine di rapporti con lui, soprattutto qui nella nostra Perugia, negli anni fra il 1931 e la guerra, nel periodo della preparazione della Resistenza, in quella attività clandestina che ebbe in lui uno dei suoi massimi protagonisti e che, per merito suo, ebbe in Perugia uno dei suoi centri piú attivi e fecondi.

Avevo 18 anni (egli ne aveva 32) quando lo conobbi nell’autunno del 1931: ero un giovanissimo, animato da una forte passione per la poesia e anche per le questioni etico-politiche, ma ancora privo di contatti culturali piú precisi e di orientamenti sicuri, preso fra prospettive da molto tempo nettissime nello svincolamento dalla religione tradizionale, e le remore gravi e scolastiche dei miti nazionali carducciani, dannunziani, pascoliani e degli inganni pseudo-sociali della dittatura.

Lo conobbi nel suo piccolo studio nella torre campanaria municipale (quello che divenne poi il luogo di incontri di tanti uomini della cultura antifascista italiana e che si sarebbe dovuto lasciare intatto per il suo alto significato storico) e fui immediatamente preso dal fascino di quella grande personalità, cosí matura e vigorosa, aperta e rigorosa, cosí alta e insieme cosí semplice e schietta: e fra quei suoi libri cosí intensamente e amorosamente annotati, il modestissimo agio del divanetto rosso, la nitida presenza del suo tavolo da lavoro accuratamente ordinato, la finestra aperta sul paesaggio di Assisi, io respiravo un’aria nuova e alta, fra accogliente e severa. Ma anche Capitini intuí il mio giovanile fondo di serietà e di appassionamento e su quello fin da quel primo incontro cominciò a lavorare per vincere, con il mio meglio, i miei limiti di prospettive ideali, e spesso anche di gusto, rivelandoli con franchezza, ma senza farmeli pesare come qualcosa, per lui, di irritante e di incomprensibile.

Cominciò cosí un rapporto fra noi (fra Perugia e Pisa nel ’31-32, e poi sempre a Perugia quando egli fu allontanato dalla Scuola Normale, di cui era segretario, per il suo rifiuto della tessera fascista) che, allargandosi subito ai suoi amici pisani (anzitutto Claudio Baglietto, collaboratore con lui della sua prima impostazione religiosa) e ai suoi primi amici perugini (anzitutto Alberto Apponi, anch’egli con me e con altri come me piú giovane di lui, cosí aperto e generoso), lentamente, con una maturazione che il suo profondo istinto pedagogico assecondava, senza forzarla, provocò in me uno svolgimento complesso e intero di tutti i miei interessi migliori, in un ricambio costante fra discussioni sulla poesia, sulla musica, sulla religione e sulla politica, che tutte convergevano nella collaborazione alla formazione di un giovane intellettuale ormai fermo nel rifiuto di ogni forma retorica, dogmatica e autoritaria di pensiero e di pratica, preparato cosí a divenire egli stesso collaboratore di Capitini nella diffusione delle idee antifasciste e nella creazione della complessa rete di rapporti clandestini, di cui Capitini era il promotore piú geniale e attivo, quanto piú la stessa propaganda e attività politica si appoggiava in lui a tutta un’originale visione della vita e della società, a una passione morale e religiosa, piú che solamente politica.

Cosí ciò che ho detto per me (un esempio della potente forza educativa di Capitini) si moltiplicava nel caso di tanti altri miei coetanei (o simili spesso a me sulle basi di partenza e nelle forme di svolgimento, perugini e umbri), mentre, per opera sua, io e altri giovani trovavamo per la prima volta contatti non solo con i vecchi antifascisti perugini borghesi, ma quello, fecondo ed entusiasmante, con i tenaci e coraggiosissimi popolani perugini (popolani o di recente origine popolana), oppositori alla dittatura, aperti alle istanze sociali e rivoluzionarie piú risolute.

E furono per me e per altri giovani memorabili incontri, nel laboratorio di Catanelli, nel negozio di Tondini, nella casa di Montesperelli, o del prete ex-modernista e antifascista Angelo Migni Ragni, sui colli vicini (in apparenti innocue scampagnate domenicali), appunto con uomini che anche perché aperti, come dicevo, a istanze sociali avanzate, pur influirono su molti di noi anche nelle successive scelte di precisi partiti politici, tutti comunque di sinistra e nettamente anticonservatori, come decisamente di sinistra, anticonservatrici, profondamente rivoluzionarie erano le istanze di fondo e di prospettive dello stesso «liberalsocialismo» di Capitini (e di alcuni suoi collaboratori, come me).

Poi fu la creazione di un primo comitato clandestino a Perugia (nel ’36), l’avvio della formazione liberal-socialista (a opera soprattutto di Capitini, Calogero, Apponi, Ragghianti, ecc.) e il dispiegarsi di un moto crescente che venne portando dalla nostra Perugia a sempre piú vasti legami nazionali, preparazione della Resistenza, in cui alcuni giovanissimi perugini, allievi di Capitini e miei, Primo Ciabatti e Enzo Comparozzi, dettero la loro vita per la causa della democrazia e del socialismo, mentre tanti altri soffrirono, con Capitini, carcere e persecuzione.

La nostra Perugia era cosí divenuta un centro essenziale nella vita nazionale, cosa di cui i perugini non possono e non devono mai dimenticarsi nei confronti della loro gratitudine per Aldo Capitini.

C’è poi un secondo periodo su cui voglio brevemente soffermarmi, soprattutto per ciò che esso comporta nei confronti di una iniziativa eccezionalmente importante e significativa di Capitini. Proprio nell’ultimo numero di «Astrolabio», a proposito della istituzione delle regioni (di cui Capitini fu strenuo e attivo sostenitore) e della funzione piú profonda che esse possono avere per un vero inizio di un rinnovamento sociale e democratico dal basso specie là dove vi prevalgono fin da ora le forze di sinistra, Ferruccio Parri scrive: «Centri di iniziativa e di impulso regionale, nelle mani o sotto l’influenza e l’impulso di uomini di sinistra possono essere forze decisive per nuove impostazioni anche di costumi, di modi moderni di vivere... Le regioni rosse possono dare un esempio progressivo e trascinante di una spontanea e creativa partecipazione di tutti, del “potere di tutti” idoleggiato dal compianto Capitini». Cosí Parri.

Orbene, negli anni luminosi, e brevi!, delle speranze del ’44-46, come non ricordare il significato in tal senso (oltre quello di successive iniziative e dello sviluppo del pensiero di Capitini fino al libro Il potere di tutti) dell’iniziativa capitiniana del C.O.S.? Come non ricordare la folla che riempiva la sala di via Oberdan, che arrivava anche un’ora prima dell’inizio dell’Assemblea per trovare posto, che partecipava attivamente alla discussione di ogni problema cittadino e generale, con la possibilità di formarsi un’opinione su partiti e avvenimenti, con la viva gioia di essere promotrice di proposte per il miglioramento della vita associata e civile della nostra città cominciando appunto dal basso e da tutti? Del fervore e della portata di quella iniziativa concreta (Capitini non fu un vacuo sognatore, ma un uomo concreto e un geniale e attivo organizzatore) non poteva non far cenno la mia testimonianza perugina, perché un’altra volta cosí Perugia diveniva, per opera di Capitini, centro di un’iniziativa di valore nazionale: e quale migliore omaggio concreto a Capitini, e quale migliore ripresa della sua lezione non sarebbe, da parte dei perugini, nella nuova vita regionale umbra, la rifondazione dei C.O.S. o di forme analoghe di assemblee popolari, magari rese ancor piú incisive e attive al livello della situazione attuale?

Ma la mia testimonianza di amico e di perugino (seppur lontano da piú di vent’anni dalla nostra città) mi porta anche ad alcune considerazioni (basate sull’esperienza personale, ma certo comuni e ben comprensibili a quelle di tanti altri amici vecchi e recenti di Capitini) miranti a rilevare aspetti e valori della grande e complessa personalità di Aldo, della sua profonda umanità, dei modi in cui quella personalità si svolgeva non solo sul piano dei grandi temi di pensiero e delle grandi lotte e iniziative, ma anche su quello degli affetti piú personali e pur mai totalmente privati, mai limitati a rapporti chiusi e intimistici o sentimentalistici, bensí sempre irrorati dal flusso della sua geniale ispirazione e della sua grande vocazione «corale», sempre vivi entro un afflato energico e fortemente stimolante. Proprio in questi giorni ho non solo ripensato costantemente a lui, ma ho riletto tutte le numerosissime lettere scritte da lui a me (oltre che a mia moglie e ai nostri figli) nel periodo successivo alla mia definitiva partenza da Perugia, nel ’48. E da quel ripensamento e da quella lettura, tra tante sollecitazioni e ricordi commossi, un motivo si è fatto avanti insistente e dominante: il motivo della profonda disposizione e capacità di amore di quel grande animo. Davvero non ho mai conosciuto un uomo che abbia cosí interamente realizzato l’alta esortazione di un grande spirito dell’800, Feuerbach, «ama, ma sul serio!», «ama le persone concrete con i loro stessi limiti», «poiché si vive finché si ama».

Tale era appunto l’amore di Capitini per le persone. E quanti di noi hanno ben conosciuto la sua disponibilità totale verso gli altri, la sua inesauribile attenzione verso gli amici e i loro piú particolari problemi! Un’attenzione fatta di affabilità e di energia, di familiarità e di tensione (parole da lui tanto amate e canone per lui anche di giudizio estetico), capace di associare (nel colloquio e nella corrispondenza) alla sollecitazione e discussione dei piú alti temi le cure piú minute per le persone, oggetto del suo interesse e amore. Cosí in quelle lettere a cui accennavo non ne trovo nessuna – sia che prevalentemente discutesse problemi profondi, sia che riguardasse notizie e problemi pratici spiccioli – che non contenga anche sempre qualche rapido consiglio rivelante, quanto piú apparentemente banale, la continua e quasi stupefacente attenzione di lui alla vita concreta delle persone amate (magari a me: «non fumar troppo» o «non andar troppo al cinema in questo periodo di influenza»), salendo poi a consigli, o a domande di consiglio, ben diversi e impegnativi o a discussioni di valore generale (con un ricambio di grandi e piccole cose ben significativo per la sua organica personalità), ma sempre con rapidi e condensati accenni al costante legame affettivo, con rivelazioni improvvise del suo amore e bisogno di amore cosí confidente e aperto (cosí in una lettera dalla Scuola Normale di Pisa, del ’55: «Da piú di un mese, quando sono in camera e sto riposando dopo pranzo, verso le tre e tre quarti penso: ora potrebbe bussare Walter»). Oppure, con brevi cenni – anche in lettere di altro tenore – egli introduceva l’amico, cui scriveva, nella sua vita piú quotidiana e nella sua memoria affettuosa, creando intorno alle cose dette – con la sua scrittura elegante e semplice (parola essenziale per lui: «tutto è da fare e inventare con semplicità») – un alone caldo, limpido e denso di vita e di affetti. Cosí un ricordo di una gita fatta insieme ai miei e altri amici sui monti pisani (20 ottobre ’54): «Che bella cosa la nostra gita di domenica! Vera domenica! Per la prima volta dopo una gita, ero per nulla stanco, tanto che mi sono messo al ritorno subito a tavolino, senza il bisogno della poltrona. E la sera sono andato a letto verso le 10. Mi sono poi svegliato, e sentivo molta gente per la strada: dicevo: che sarà successo? Ho guardato l’orologio: era semplicemente mezzanotte e venti, e avevo già dormito piú di due ore».

E magari tutto si condensava (entro il contesto diverso) in rapidissimi accenni a ricordi comuni, cari alla nostra comune memoria (3 febbraio ’58: «sono andato ad un concerto per riascoltare, dopo tanto tempo, l’Egmont, che fu la nostra musica dell’antifascismo, piú di tante altre»), o in semplici didascalie di date: 20 giugno ’54 («il 20 giugno che ci ricorda i nostri perugini»); 25 luglio ’64 («ricordi il 25 luglio di ventun anni fa?»); 22 aprile ’58 («è uno dei giorni piú belli, la nascita di mio padre»); 4 novembre ’50 («ripenso a tua madre», morta in quel giorno nel ’39).

E cosí tante altre date care o sacre alla nostra vita (il 10 marzo, morte di Mazzini, che solevamo qui a Perugia celebrare raccogliendoci con amici a Montebello da Migni Ragni; il 20 settembre, il 14 giugno, liberazione di Perugia) o viceversa date a noi tutt’altro che care (11 febbraio, data del Concordato, «lutto nazionale») o ancora date care alle costumanze della nostra città: 28 gennaio ’55, «Il 29 è S. Costanzo: ricordi le sue campane?».

Oppure ancora l’introduzione di rapide aperture su luoghi e paesaggi perugini o su stagioni e situazioni metereologiche perugine a noi due, o a me, care: «Qui ieri c’era un oro nella luce che mi fa presentire l’autunno perugino» (12 agosto ’55); «A Perugia c’è un freddo che ti piacerebbe, ci sono state giornate proprio tue» (12 gennaio ’61); «A Perugia ti chiamerò quando sentirò una bella tramontana» (5 febbraio ’62).

Ed ecco: Perugia, la nostra Perugia, era sempre al centro dei suoi interessi e del suo amore. E quanti brani di lettere potrei citare in appoggio a questo motivo! Ora in forma di quadro perugino, che si inserisce nella lettera come un’apertura dell’anima nel suo accordo con un paesaggio caro, consueto, e leopardianamente evocativo di ricordi e di doppia vista poetica: «Mentre ti scrivo odo “un tonar di ferree canne” verso Prepo, in un bel pomeriggio domenicale: i nostri colli, gli accenti del nostro dialetto, le nostre osterie di campagna, lo scendere del freddo della sera perugina!» (23 marzo ’58). Ora invece dando a Perugia il valore solenne di un luogo eccezionale, propizio agli incontri piú cari, alle discussioni piú confidenti e piú elevate: 12 maggio ’52 a mia moglie: «Magari venissi anche tu a Perugia! Mi pare un sogno che ci ritroviamo con Walter e te in quell’aria solenne e in quelle linee». 11 agosto ’58: «Trasferiamo il progetto di calma conversazione a Perugia di cui ti mando uno dei panorami piú belli, piú in accordo con la poesia e con la musica»; e ancora a me (Pisa 14 settembre ’59) quando si discuteva se incontrarsi a Pisa o a Perugia: «Sceglierei Perugia. So che a Perugia si incontrano anche ricordi molesti, e talvolta bisogna come scansare con la mano cose che avremmo voluto diverse: ma mi pare che e non qui a Pisa, sia possibile toccare ogni tanto quei punti alti, assoluti, puri, che ricompensano del resto: punti che si vedono, si vivono pacatamente , e non fuggevolmente».

Anche questi brevi brani e i testi interi delle lettere, mentre introducono cosí agevolmente nell’atmosfera familiare e tesa della vita quotidiana di Aldo, documentano pure (oltre naturalmente alle opere intere) un altro aspetto e valore della personalità di Capitini: quello di un vero scrittore, certamente il maggiore scrittore perugino e umbro del ’900. Scrittore e anche uomo di gusto finissimo e finissimo lettore critico: penso a certi suoi saggi sul Paradiso di Dante e sul Leopardi, alle sue inedite tesi di laurea e di perfezionamento, ma anche a certe lettere, con accenni importanti di nuovo su Leopardi e su Dante, e, se il tempo lo permettesse, piacerebbe leggere un vero piccolo abbozzo di saggio sul canto di Piccarda in una lettera del 2 marzo ’58.

Quelle lettere ci dimostrano ancora l’organicità di Capitini, il suo complesso ricambio, come scrittore e pensatore, tra piani piú confidenziali e piani piú impegnativi di opere organiche. E basterebbe accennare a certi anticipi e gradazioni di alcune lettere rispetto a brani compiuti dei suoi libri, come può vedersi almeno nel rapporto fra il brano di una lettera del 21 marzo ’55 («Circa l’abbandono, ripeto che sono convinto che se si arrivasse veramente a sentire un calmo appoggio a tutti quando è la notte, si dormirebbe meglio. Bisognerebbe sentirli uniti e compagni in eterno. Io da anni come dico ogni mattina “Buon giorno a tutti”, aggiungendo qualche nome delle persone piú vicine alla mia vita, cosí addormentandomi dico “Buona notte a tutti” e a qualche nome in particolare») e l’ultima strofa di Colloquio corale:

Buona notte ad amici e ad ignoti,

ai morti riveduti nel lampo della festa:

come ognuno ama in atto tutti,

cosí tutti il sonno unisca, disceso senza lotta:

entriamo pacati nella notte grati alla festa,

dopo esserci aperti a lei.

Pare infine chiaro che un brano come quello della lettera ora citata fa risalire dal piano degli affetti personali a quello dell’amore capitiniano per tutti (che quegli stessi affetti personali rafforza e allarga), riporta dalla mia testimonianza di amico alla mia testimonianza (qui inevitabilmente limitata dal tempo) di lettore di Capitini, di intenso ammiratore e valutatore della sua grande problematica e tematica, persuaso della validità stimolante delle sue grandi prospettive ideali, anche quando non le si condividano interamente.

Dirò solo, a questo proposito, che tutti quelli che hanno vissuto e sentito la grande lezione di Capitini ne riportano e ne riporteranno sempre in se stessi segni indelebili, non solo come presenza di un grande animo e amico fraterno, ma anche come di eccezionale promotore di grandi tensioni ideali (mai incentivo di evasione dagli impegni concreti), e ne risentiranno sempre il fascino e l’impulso, anche quando, ripeto, alcuni di essi possono discuterle e in parte dissentirne: e si tratterà magari di quei tormentati e «perplessi» fra cui si pone, con tanta leale semplicità, l’amico Bobbio nella conclusione della sua bellissima introduzione al Potere di tutti, e di quei «rivoluzionari insufficienti», come Aldo li chiamava, ci chiamava, piú tesi al piano politico e sociale che a quello religioso. Ma anche in questi casi non si può non avvertire la forza dei suoi problemi e delle sue prospettive, che tutto riportano ad un livello piú alto di discussione e di non facilità. E soprattutto non si possono non considerare quei problemi e quelle prospettive come elemento essenziale nella prefigurazione di una società veramente nuova di liberi ed eguali, al cui sviluppo duraturo non è sufficiente (anche se sicuramente indispensabile) l’abolizione dell’attuale sistema economico-sociale. Allora tanto piú mi pare non solo necessaria, come lui voleva, una strutturazione interamente dal basso e di un potere veramente di tutti, ma necessaria anche la presenza, in quella nuova società, di una visione profonda che continui costantemente a promuovere una liberazione dai limiti della vecchia società e della vecchia realtà, sino allo stimolo operante del grande tema della compresenza dei morti e dei viventi.

Sicché in tutti noi, anche diversi, come Aldo in vita ha alzato continuamente l’impegno delle nostre posizioni e delle nostre azioni e ci ha spinti, con il suo amore e rigore, ad approfondirci e migliorarci, cosí la sua viva presenza (non solo commossa memoria) continuerà finché vivremo a stimolarci, ad agire su di noi perché ognuno di noi sia meno insufficiente rispetto ai propri compiti, alle proprie posizioni di ideologia e di prassi.